Caro Enzo, grazie per aver cantato gli ultimi anche se eri uno dei primi
Jannacci, la stralunata poesia di un artista che sapeva guardare dove non guarda più nessuno
Con la morte di Enzo Jannacci- non ho mai capito se ci va la J – è morta definitivamente la borghesia milanese, quella che pomposamente amava chiamarsi “ambrosiana”. Quella dei professionisti, degli industriali che sapevano anche guardarsi intorno e accorgersi delle povertà e magari, qualcuno, provare anche a fare qualcosa. Lui era un cantore dei poveracci ma ai miei occhi di ragazzo di periferia era quella cosa lì. Era medico, intellettuale, geniale, creativo ma mai folle.
Per me era la Milano bella, quella dei racconti di mio padre da ragazzo, lui sì ch’el purtava i scarp del tennis negli anni cinquanta come fossero un manifesto di liberazione, di liberazione dalla guerra e dalla miseria. Poi sono venuti gli anni della paura, quelli settanta e quelli dello stronzismo, la Milano da bere, proseguito fino a tutti gli anni duemila, mi sembra.
Ma Enzo Jannacci ha continuato a cantare i deboli, gli ultimi, i drogati, quelli che parlano in dialetto milanese (pochi, pochissimi) perché l’italiano in fondo non è mai stata la loro lingua. Io con queste canzoni ci sono cresciuto, le sue, non quelle di Gaber, troppo intellettuale per noi. Credo che pochissime canzoni nella mia vita mi abbiano commosso come Giovanni telegrafista, tanto che per un periodo mi sono messo il pirippiprippiprirpi come suoneria del cellulare. Per ricordarmi che l’amore o ha il cuore urgente oppure non è.
Avevo vent’anni quando partecipò al Festival di Sanremo con “Se me lo dicevi prima”. Un j’accuse lucido, meraviglioso e terribile su quanto eravamo diventati stronzi, tutti presi dai nostri jeans griffati negli anni ottanta. Io quella frase sono vent’anni che non riesco più a dirla e per questo, caro Enzo, non ti ringrazierò mai abbastanza. Ciao.
Sergio Bolzoni
@sergiobolzoni
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