La storia della famiglia nel bosco è un caso mediatico che con sé ha trainato sentimenti contrastanti, alimentando una frenetica gara di solidarietà. Donazioni, appelli, prese di posizione pubbliche. Tutto legittimo, tutto comprensibile, ma davvero necessario? La sensazione è che più che il bisogno si seguano le telecamere, innescando uno strano automatismo per il quale non serve essere poveri per ricevere aiuti. Anzi. Quella famiglia non viveva una condizione di indigenza economica certificata. Eppure, l’esposizione mediatica ha trasformato una scelta di vita alternativa in un caso nazionale, innescando un’ondata di empatia che milioni di famiglie realmente in difficoltà non sperimenteranno mai. Una solidarietà selettiva, insomma, che aiuta il "visibile" e non il bisognoso.
Una scelta più che una necessità - Quello che sappiamo è che la scelta di vivere nel bosco non sembra dettata da un’emergenza economica improvvisa, ma da una decisione di vita alternativa. La famiglia non risulta priva di possibilità di rientro in un contesto abitativo regolare, elemento che ha alimentato il dibattito pubblico. Da quanto emerso, non si tratterebbe di un nucleo in povertà assoluta, ma di persone che avrebbero comunque potuto contare su risorse minime (principalmente il sostegno dei parenti). Nathan Trevallion e Catherine Birmingham hanno raccontato la loro versione dei fatti, difendendo con convinzione la scelta di crescere i figli nel bosco. Secondo la coppia, i tre bambini erano felici di vivere immersi nella natura, circondati dagli animali e lontani dalla “fretta, dallo stress e dalla violenza” della “vita moderna”.
Il potere della narrazione - A fare la differenza non è stata la gravità della situazione, ma la sua raccontabilità. Una famiglia nel bosco è un’immagine potente, simbolica, disturbante quanto basta. È una storia che divide, interroga, commuove. È una storia che funziona. E in un sistema mediatico affamato di narrazioni, ciò che funziona diventa automaticamente centrale. La povertà vera, quella che vive negli appartamenti sovraffollati delle periferie, nei contratti a termine, nelle mense Caritas, non ha lo stesso impatto visivo. Non sorprende, non scandalizza, non “buca” lo schermo. È ripetitiva, silenziosa, dunque ignorabile.
Solidarietà selettiva e cortocircuito morale - Il risultato è una solidarietà profondamente selettiva. Si accende quando una storia diventa virale e si spegne quando il disagio è strutturale. Si mobilita per l’eccezione, non per la regola. Aiuta chi è visibile, non chi è numeroso e realmente bisognoso. Eppure i numeri dicono altro: stando agli ultimi dati Istat in Italia oltre 5,7 milioni di persone vivono in povertà assoluta (pari a circa il 9,8 % della popolazione residente), e 1,3 milioni sono minori. Famiglie che non hanno scelto l’emarginazione, ma la subiscono. Famiglie che non finiscono nei titoli, che non diventano casi mediatici, che non attivano raccolte fondi. Quello che si è determinato è una sorta di cortocircuito morale: è più facile aiutare una storia simbolica che confrontarsi con un sistema che produce povertà diffusa. Nel caso della famiglia nel bosco, l’intervento solidale ha avuto anche una funzione rassicurante: proteggere i bambini, placare un disagio collettivo, risolvere una storia “scomoda”. Ma intanto, lontano dai riflettori, la povertà continua a essere invisibile e, dunque, irrisolta.
© Withub
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La situazione economica della famiglia nel bosco - Dalle informazioni emerse, non si tratterebbe di un nucleo privo di risorse o completamente escluso dai circuiti economici, ma di persone che avrebbero potuto contare su alternative abitative e su una rete minima di sostegno. Un dato che non ridimensiona la complessità della scelta di vita, ma che rende ancora più evidente il corto circuito della solidarietà: l’aiuto non è scattato per una mancanza di mezzi, bensì per l’impatto emotivo della storia e per la sua esposizione mediatica. Non risultano dati ufficiali o documenti pubblici che dettaglino in modo preciso le entrate economiche della famiglia, ma la coppia ha dichiarato di essere sostenuta economicamente dai familiari. Nel fascicolo giudiziario è, infatti, incluso l’estratto conto per valutare la capacità economica. Dai dati bancari emergono alcuni numeri significativi. Stando a quanto pubblicato da Il Messaggero, al 31 marzo 2025 l’attivo risultava pari a 128 euro, mentre al 30 giugno ammontava a 362 euro. Nello stesso periodo le entrate complessive sono state di circa 19mila euro. Le somme più consistenti, superiori ai 2.000 e ai 5.000 euro, corrispondono a bonifici provenienti dall’estero, eseguiti da familiari della coppia. Presenti, inoltre, somme che variano tra i 100 e i 150 euro, riconducibili a piccole prestazioni lavorative di Catherine svolte in Italia. Ma né le istituzioni né la famiglia stessa hanno diffuso un quadro certificato delle loro risorse economiche.
La responsabilità collettiva - La domanda allora non è se sia giusto aiutare la famiglia nel bosco. La domanda è perché serva una storia eccezionale, amplificata dai media, per ricordarci che la solidarietà esiste. Finché l’empatia resterà legata all’esposizione mediatica e non al bisogno reale, continueremo a commuoverci per pochi casi simbolici e a ignorare milioni di povertà quotidiane. E questa è una crisi di responsabilità collettiva.