Ultima scoperta archeologica

Fave, mele e pere era il cibo degli schiavi a Pompei: "Dieta più sana dei padroni"

Il ritrovamento di anfore e di un grande cesto di frutta negli scavi della villa di Civita Giuliana conferma quanto già tramandato dalle fonti

Fave, pere e mele, tutti alimenti ricchi di vitamine e proteine. Ecco cosa davano da mangiare ai loro schiavi i Romani nell'antica Pompei. L'ultima scoperta, emersa dagli scavi nella villa di Civita Giuliana, con il ritrovamento di anfore con fave e di un grande cesto di frutta, conferma quanto già tramandato dalle fonti e cioè che, paradossalmente, i lavoratori schiavizzati che i Romani consideravano "strumenti parlanti", in alcuni casi mangiavano meglio dei loro prossimi "liberi", proprio perché considerati strumenti di produzione che andavano tenuti in buona salute. Le anfore e il cesto sono stati ritrovati in uno degli ambienti al primo piano del quartiere servile della grande villa, i cui scavi sono iniziati nel 2017 e che per anni è stata interessata dai saccheggi.

La dieta degli schiavi -

 Il cibo "aggiuntivo" era dunque un integratore prezioso per uomini, donne e bambini che abitavano in piccole celle di 16 metri quadri, ciascuna delle quali poteva contenere fino a tre letti. In quanto "strumenti di produzione", i padroni evidentemente facevano in modo di integrare la loro dieta - che era basata sul grano - con alimenti ricchi di vitamine, come la frutta, o proteine, come le fave, per non far abbassare il loro valore, che poteva arrivare a diverse migliaia di sesterzi.

L'ultima scoperta archeologica -

 La conservazione al primo piano, in una zona dove le indagini stratigrafiche continueranno nei prossimi mesi, verosimilmente aveva una doppia finalità: proteggere meglio gli alimenti dai topi e garantire un razionamento, dunque un controllo, su quanto ciascuno poteva prendere giornalmente dalla dispensa, anche in base alle mansioni, all'età e al sesso. Al primo piano infatti, secondo le ricostruzioni storiche, alloggiavano i servi più fidati del padrone di casa, cui spettava la supervisione su tutti gli altri.

Il dato che emerge è che poteva dunque verificarsi che gli schiavi delle ville intorno a Pompei fossero meglio nutriti di molti cittadini formalmente liberi, alle cui famiglie mancava il minimo per vivere e che erano pertanto costretti a chiedere elemosine ai personaggi eminenti della città.

"Sono casi come questo in cui l'assurdità del sistema schiavistico antico diventa palese - conferma il direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, co-autore dello studio sul quartiere servile di Civita Giuliana -. Esseri umani vengono trattati come attrezzi, come macchine, ma l'umanità non si può cancellare così facilmente. E così, il confine tra schiavo e libero rischiava continuamente di svanire: respiriamo la stessa aria, mangiamo le stesse cose, a volte gli schiavi mangiano persino meglio dei cosiddetti liberi. Allora si spiega come in quel periodo ad autori come Seneca o San Paolo potesse venire in mente che alla fine siamo tutti schiavi in un senso o nell'altro, ma possiamo anche tutti essere liberi, almeno nell'anima". 

Lo scavo in località Civita Giuliana proseguirà per ricostruire un quadro più completo e articolato dell'organizzazione planimetrica della villa e della sua estensione nel quartiere servile.

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