Ida Miriam Ponzi, figlia del noto investigatore privato Tom e conosciuta come Miriam Tomponzi, è stata arrestata a Roma con l'accusa di bancarotta fraudolenta e documentale. Con lei, su disposizione del gip di Milano, è finito in manette anche il figlio Doriano Jaroudi. In base all'accusa, i due distraevano "sistematicamente gli importi fatturati" dall'agenzia investigativa Miriam Tomponzi srl a favore della stessa Ponzi per pagare spese "voluttuarie".
Finisce così, nel carcere milanese di Opera, l'avventura imprenditoriale di Miriam Ponzi, erede di una delle più conosciute agenzie investigative italiane, quella del padre Tom Ponzi, uno dei pionieri dell'investigazione privata.
Il gip ha proceduto all'arresto della Ponzi, del figlio e di altre tre persone su richiesta del pm Stefano Civardi. Tra gli altri, coinvolto anche Luigi Morosini, che è stato posto ai domiciliari a Roma. La Ponzi e il figlio sono invece già stati trasferiti nel carcere di Milano. Tra le spese voluttuarie individuate risulta che ci sia anche uno chalet in Svizzera.
I carabinieri hanno effettuato perquisizioni a Roma, setacciando anche l'abitazione e l'ufficio di Morosini, che viene difeso dall'avvocato Chiara Madia.
Secondo il decreto di perquisizione gli inquirenti sono riusciti a definire anche una serie di bonifici, a partite dal 2006, di importi che variano dai 15 ai 40mila euro. Alla Ponzi inoltre viene contestato di aver gestito le "scritture contabili in maniera tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti riconducibili alla società, occultando le distrazioni" fatte dai conti della società. Nel marzo del 2011 il tribunale di Milano ha dichiarato il fallimento dell'agenzia investigativa amministrata da Morosini.
Nonostante il fallimento, secondo l'accusa, la Ponzi, il figlio e Morosini, hanno continuato ad operare sfruttando la stessa organizzazione di impresa svuotando le casse della società.
Per gli inquirenti la figlia di Tom Ponzi, in sostanza, "pubblicizzando il marchio Tom Ponzi, costituiva e gestiva come amministratrice di fatto una pluralità di società allo scopo di svolgere - è detto del decreto di perquisizione - con modalità illecite investigazioni private".
La donna gestiva la rete di società avvalendosi di prestanome "unicamente come schermo giuridico per un'attività diretta e gestita personalmente non rispettando l'autonomia patrimoniale delle società".