Pupi Avati: "Sono nato narratore, il cinema mi ha permesso di dire chi sono"
Intervista con il regista in occasione dei suoi 81 anni
Compie 81 anni, il 3 novembre, Pupi Avati, uno dei registi più importanti del nostro cinema. Per l'occasione in questa intervista si racconta spiegando alcuni tratti distintivi della sua opera e della sua poetica.
Maestro, Orson Welles ha scritto che un film non può essere perfetto se dietro la macchina da presa non pulsa il cuore di un poeta. Condivide l’elogio di questa speciale sensibilità e la necessità, per un regista, di possederla?
In fondo è un po’ la conferma di quello che lei stesso ha confessato essere un Suo cruccio personale: puntualizzare la differenza tra nutrire una passione e possedere un talento. Nella sua ultima intervista Alda Merini mi aveva detto: ‘poeti si nasce’. Si nasce anche registi?
Si nasce narratori. Ogni essere umano è portatore di un mondo, di una sua identità, di qualcosa di assolutamente peculiare e unico da dire. Ogni essere umano rappresenta “un’eccezione”: cristianamente parlando è “il prescelto”. Allora, considerando questa condizione, ognuno dovrebbe avere l’opportunità - e avvertirla come un dovere - di “dirsi”, di dire agli altri “chi è” , attraverso quello che fa. Questo tema io lo affronto spesso nei miei incontri, nella mia ricerca professionale, specie con i giovani, esortandoli a trovare lo strumento che sia consono ad esprimere il loro talento, per far coincidere la loro professione, il loro mestiere, con la loro vocazione. E’ una cosa molto difficile perché confondere passione con talento produce travisamenti e delusioni. Io stesso ho trascorso molti anni della mia vita nell’illusione di diventare un buon musicista. Solo più tardi, nella vita, ho incontrato il cinema che mi permette di dire chi sono. Non è che io rappresento un’eccezione: ognuno di noi dovrebbe esprimere le sue potenzialità, averne la possibilità e il dovere, per non restare solo spettatore degli altri, per questo ognuno di noi è potenzialmente un poeta.
Trovo nei Suoi film una costante attrazione verso il passato, quasi un dovere della nostalgia e del ricordo come chiave di lettura per capire il presente. E’ dunque sempre così importante ’ricordare’?
Io alterno racconti nei quali si affronta “il presente”, come nel mio ultimo film che uscirà a febbraio - “Il figlio più piccolo” – e che tratterà il tema del denaro e della genitorialità della figura paterna nei suoi aspetti meno edificanti, con altri che riguardano il passato e la memoria, che in effetti sono prevalenti nella mia produzione. Io penso che sia necessario – soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che vivono una distrazione di interesse così mortificante nei riguardi di tutto ciò che li precede dal loro presente – che ci sia qualcuno che rammenti loro da dove veniamo, chi siamo stati, quali sono le straordinarie opportunità che il presente ci offre grazie alle scelte di chi ci ha preceduto. E’ anche un dovere comparativo, tra ieri e oggi, per non cadere nella lamentela. Oggi non si sente altro che persone che si lamentano, che tutto fa schifo, che per i giovani non ci sono prospettive e cose del genere. Ecco io vorrei che solo per un attimo si spalancasse una finestra sui “favolosi” anni 50, per capire come favolosi non lo fossero affatto. La memoria non è solo opportunità per vivere nostalgie della propria infanzia o adolescenza: è evidente che in genere uno prova nostalgia di quando era un ragazzo e di quello che spensieratamente faceva. Ma è anche lo strumento e il modo per dire quanto grama fosse la vita: nel mio film “Gli amici del bar Margherita”, i ragazzi che stavano dentro e fuori da un bar che speranze potevano avere, quali occupazioni o passatempi: quei quattro scherzi da dementi, da deficienti che facevano…..Non vorrei però che tutta questa disperazione, questa visione così negativa della vita che ci circonda oggi, depotenziasse e privasse i nostri figli e i nostri nipoti di quello che è un elemento importante dell’adolescenza della giovinezza che è invece l’attesa, la capacità di sognare, di attendersi qualcosa di importante dalla vita, di ‘pretendere’ una speranza per il loro futuro
Mi fermo ancora sul tema del ricordo e della memoria, perché immagino ci sia molta autobiografia nei Suoi film. Rievocare immagini, sensazioni, presenze, sentimenti di una vita – soprattutto nella prevalente contestualizzazione delle relazioni parentali e amicali, come spesso lei ha scelto di fare – ci vincola inevitabilmente alla nostalgia, ai pentimenti, alla sofferenza e – a volte - ai sensi di colpa – o può lasciare spazio ad una rivisitazione retrospettiva ispirata all’indulgenza, alla benevolenza e persino all’ironia?
Sono assolutamente d’accordo sul fatto che l’autoironia sia uno degli elementi essenziali per arrivare alla credibilità., per ottenere da chi ti ascolta quella fiducia che altrimenti non riusciresti ad ottenere. Io penso che nell’interlocuzione, sia che avvenga attraverso un dialogo, in quello che ci stiamo dicendo adesso o nel fatto che potremmo scambiarci proposte di lavoro, cinematografiche da parte mia o letterarie da parte sua, o con semplici opinioni, ci si possa intendere, capire, se si ha il senso del limite. Io penso che attraverso le dichiarazioni di inadeguatezza, che sono una costante dei miei protagonisti - sono tutti personaggi portatori di disistima, di ingenuità , di complessi di inferiorità, incapaci di vivere all’altezza del contesto e delle aspettative sociali, – alla fine del racconto quelli che sembravano i più fragili e i soccombenti diventano nelle mie trame in fondo degli eroi. Per rendersi reciprocamente attendibili io debbo esordire con lei confessando una mia debolezza, se esprimo fin da subito quello che è un mio limite lei si fida di me e mi ascolta con maggiore attenzione. Invece oggi succede che nell’interlocuzione, l’esordio, l’approccio è caratterizzato da toni di aggressività, diffidenza, tracotanza: subentrano sovrastrutture strategiche dietro le quali ognuno di noi si cela, si nasconde, si protegge per non rendersi visibile e intercettabile dagli altri e non si arriva mai ad un rapporto sincero e profondo, costruttivo e proficuo per entrambi. Quindi l’autoironia è un qualcosa di veramente molto, molto nobile. Bisogna vedere se stessi attraverso i propri limiti - ci può essere anche un minimo di civetteria - ma questo è il modo migliore per conoscersi e comunicare, per instaurare una relazione profonda. Bisogna bypassare le schermaglie strategiche nei rapporti personali: il mio cinema intimizza subito perché i miei protagonisti sono portatori di questo atteggiamento.
Il contesto familiare, le figure genitoriali, le relazioni parentali sono i luoghi privilegiati di ambientazione dei Suoi film. Trovo in particolare che Lei abbia saputo descrivere con particolare efficacia narrativa il declino della figura paterna nella società contemporanea. Nel cinema e nella realtà molte vicende narrano trame di disfacimenti familiari: che cosa è cambiato nella famiglia in questi anni, e come tutto ciò ha influito e influisce sul piano affettivo e di formazione dell’identità sui figli, sulla loro educazione sentimentale e sulla costruzione dei loro archetipi di vita?
Io penso che la situazione sia precipitata attraverso una forma di deresponsabilizzazione di questi luoghi – e mi riferisco alla famiglia e poi alla scuola - consacrati e deputati, resi rassicuranti da secoli e secoli, millenni di consuetudini e riconoscimenti di ruoli: in casa la madre era la madre, il padre era il padre, i figli erano i figli e cosi tutte le figure collaterali assumevano e interpretavano correttamente i ruoli ai quali erano chiamati. Adesso invece c’è una profonda modificazione di questi ruoli perché conta molto di più quello che è esterno al contesto familiare e allora abbiamo delle famiglie dove ci possono essere ‘due padri’, e quindi la madre è il secondo padre che non è più tale perché a sua volta nell’alibi della propria carriera trova delle giustificazioni che lo fanno scomparire come modello di riferimento formativo. Tutto questo in nome di una finalità che è quella della competizione che avviene al di fuori del nucleo familiare. Il contesto familiare non è più considerato da nessuno il luogo privilegiato della formazione dell’essere umano: so di esprimere un’idea non più praticabile però se noi fossimo capaci di restituire alla famiglia il suo ruolo centrale nella società, ecco allora io penso che il 70/80% dei problemi che affrontiamo oggi – di tutti i generi, in tutti gli ambiti – sarebbe totalmente risolto, cosa che invece non avviene. Allora la deresponsabilizzazione si trasferisce in tutti gli altri contesti istituzionali, politici e sociali: nessuno fa più quello che dovrebbe fare, in nome sempre della carriera. Di qualcosa, cioè, che riguarda un impegno diverso e che diventa purtroppo prioritario.
Nei suoi film lei presta sempre molta attenzione agli aspetti quotidiani della vita, dove ci sono uomini e donne che hanno storie e vissuti che bisogna andare a scoprire, come sotto ad una lente di ingrandimento, perché vivono, soffrono, amano, accarezzano sogni, lusinghe e utopie. Che cosa l’affascina di questo mondo sommerso - e ad uno sguardo frettoloso persino soccombente - ma dove la gente ha sempre delle storie importanti da raccontare , che parlano al cuore di ciascuno di noi e ai suoi segreti?
Mi affascina il fatto che sia totalmente sottaciuto, mentre prevale un numero sconfinato di esseri umani che si riconoscono in personaggi la cui visibilità è dovuta al fatto che sono portatori di forza, di esuberanza, di dominio, di potenza, di ostentazione di sicurezza, di ricchezza, che compiono gesti di grande stravaganza. Il proscenio è totalmente riservato a questa minoranza di ‘eroi’ mentre la stragrande maggioranza delle persone è rassegnata a diventare una platea sconfinata che è poi statisticamente rilevata dai numeri dell’auditel ma è come se non esistesse: non è ‘detta’, non è narrata, non è celebrata la sua quotidianità. Quando tra centinaia di anni qualcuno si chiederà: com’era la gente del ventunesimo secolo?... nessuno saprà rispondere. Tutto, anche i dibattiti televisivi, gli approfondimenti sono l’enfasi delle eccezioni, dei pochi, dove tutti dovrebbero riconoscersi. Gli stessi temi proposti non sono quelli che riguardano e interessano la gente comune: omofobia, trans, veline ecc. C’è una evidente distorsione della realtà. Sono sempre i numeri che la fanno da padrone, non la qualità. Editoria, Tv impongono scelte tematiche – spesso vere e proprie porcherie - e ottengono consensi elevati: in genere gli spettacoli risultano apprezzati perché hanno ottenuto un’audience altissima, di milioni di spettatori ma questo avviene perché sono imposti e quindi c’è un decadimento generale del gusto e della capacità critica, nel nostro Paese, che è veramente preoccupante. C’è molta supponenza, anche nella critica e una scarsa percezione generale della qualità e del singolo talento.
Trovo molta attinenza – se mi permette – tra il suo stile narrativo, l’ambientazione e personaggi dei suoi film e quelli di Federico Fellini. Condivide questa impressione, ci sono dei riferimenti che vi accomunano?
Fellini è stata una figura focale nella mia scelta professionale in quanto se non avessi avuto questo riferimento non avrei immaginato che il cinema avesse questa centralità nella mia vita. “8 e 1/2” è stato un film che mi ha aperto gli occhi sulle opportunità che il cinema dava a chi riusciva in qualche modo ad ‘impadronirsene’, a realizzarlo. Mi ha quindi segnato profondamente. Poi c’erano sicuramente delle consonanze, delle affinità derivanti dalle comuni radici: lui era cresciuto nella cultura contadina della terra di comune origine, nell’epoca prebellica (lui era del 22, io del 38) e quindi l’Italia alla quale lui fa riferimento era cristallizzata in ogni maniera e comportamento sociale, negli usi e nelle tradizioni, interpretazioni del mondo e della religione, cultura contadina: tutti ingredienti che hanno reso magico Fellini nella sua straordinaria creatività e ai quali io stesso non ho potuto restare insensibile, condividendone le origini. Il mio problema è stato se mai successivamente di sottrarmi a questa stretta influenza culturale per non essere considerato solo un suo discepolo, ed è stata una cosa difficile e faticosa: ritagliarmi un mio spazio e una mia identità..
Silvio Orlando, Diego Abatantuono, Christian De Sica, Neri Marcorè, Luigi Lo Cascio, Katia Ricciarelli, Laura Chiatti, ma soprattutto il compianto Carlo Delle Piane: sono tutti attori che hanno dato il meglio di sé sotto la Sua regia. Abatantuono ha detto: “mi sento figlio di Pupi Avati”. La Sua regia è stata dunque per loro l’occasione per far emergere il mix vincente di passione e talento?
Il rapporto con gli attori è sempre “non rassegnato” rispetto a quello che loro hanno già dato e fatto nel corso della loro vicenda professionale: mi sono sempre immaginato rispetto a loro in qualcosa che andasse oltre il già visto. In genere mi è sempre stato molto utile non conoscerli., sapere poco di loro, non avere visto nessuno dei loro film, per potere essere libero di immaginare di dare loro un abito diverso da quello indossato fino ad oggi. E’ molto stimolante per me e anche per loro: cito Lo Cascio, in genere attore drammatico, emblema del rammarico della vita di oggi e di ieri, che ho chiamato a recitare un ruolo da “erotomane scemo siciliano”, cosa che lo ha molto divertito. Spaesare, decontestualizzare un attore e aggiungere alla sua tavolozza un’ottava in più, un colore che non sapeva di avere; quando l’operazione riesce c’è un buon risultato. Credo che dia arricchimento all’attore.
Rapporto tra cinema e televisione in relazione ai comportamenti sociali: la mia impressione è che il cinema possegga una migliore capacità di descriverli e interpretarli, è quindi più efficace la fruizione dello spettacolo che sa offrire. La televisione finisce solo per condizionarli in modo stereotipato, con modelli anche pesantemente diseducativi. E’ dunque la TV che parla al Paese?
Mi pare che se ne siano accorti tutti, a cominciare dalla politica. Secondo Lei si tratta di una deriva culturale irreversibile? Si lo è, e lei acutamente ha osservato che è la TV che parla al paese reale. Io continuo a dirlo da decenni: questa operazione di arretramento del cinema italiano ha fatto sì che abbiamo lasciato spazio alle seconde, terze e quarte file che si sono impossessate dello spettacolo attraverso la TV commerciale che ha i suoi film e si è imposta: il cinema vero è uno spettacolo di nicchia, che si rivolge a minoranze elitarie, soprattutto nelle grandi città, penalizzato anche dagli incassi. Il cinema non parla più al paese, la società non la cambia più. Sicuramente questa deriva è negativa e pure irreversibile. Il cinema è in declino, la TV ha un’incidenza devastante: è la peggiore maestra che il Paese possa avere.
Le giovani generazioni vivono con disagio le relazioni familiari, sopportano la scuola, realizzano comportamenti prevalentemente solipsistici, consumistici, esprimono vissuti a volte aggressivi, hanno un rapporto quasi assente con la politica…. Qualcuno ha definito i giovani di oggi “fragili e spavaldi”. Che cosa non funziona più a casa, a scuola e nel più ampio contesto sociale? Non le pare che per cambiare qualcosa gli adulti che hanno delle responsabilità, più che dalle parole dovrebbero partire dagli esempi?
Lei è molto bravo perché nella sua domanda c’è già la risposta: è assolutamente così. Vale il discorso che ho fatto per la famiglia. Ci sono dei modelli che hanno funzionato e ora non più. Quando incontriamo i ragazzi che si candidano al cinema li troviamo rassegnati al fatto che non ci sia nessuna chance, a differenza dei raccomandati o di coloro che imboccano scorciatoie scorrette. Vengono per assolvere a un dovere che giustifichi il loro fallimento, per avere un alibi e tornare nella nicchia dei perdenti. La descrizione continua che si fa sui comportamenti scorretti della società è deleterio, produce disaffezione e sconforto: il mondo fa schifo, tutto fa schifo, tutti vogliono fregarti. Aggiungiamo poi il degrado estetico: i giovani assumono spesso modelli di riferimento estetico negativi, fanno di tutto per imbruttirsi. Trovo questo aspetto inquietante.
Maestro Avati, chiudo usando come metafora del nostro tempo il titolo di una poesia di Attilio Bertolucci: “Assenza, più acuta presenza”. Mi sembra che di tante cose che una volta c’erano e che ci sono sempre meno (il silenzio, la riflessione, i sentimenti, le passioni ma anche una certa capacità di sapersi accontentare per essere più sereni….) si avverta il nostalgico bisogno di un ritorno. Che cosa ci rende –oggi – infelici e a quali speranze possiamo affidare il nostro futuro?
Ho la sensazione che l’infelicità sia una componente essenziale della nostra condizione umana e che sia ingannevole e non verosimile asserire che nel passato c’era meno infelicità di quanto ce ne sia nel presente. L’infelicità e anche la sofferenza sono le scuole alle quali si cresce di più e meglio.. La bravura e la capacità interpretativa di un attore, di calarsi nel personaggio, non gli derivano dalla scuola che ha frequentato ma dall’infelicità che ha vissuto. La conoscenza della vita passa attraverso la sofferenza. L’infelicità non è una novità del presente: un tempo si cercava di debellarla o di renderla compatibile ad uno scopo di riscatto, oggi la si subisce e ci costringe alla rassegnazione attraverso l’omologazione dei comportamenti sociali: fare tutti le stesse cose. Non è che negli anni 50 ci fossero più opportunità di oggi, è una menzogna. Ma oggi mancano le utopie individuali e collettive, la voglia di riscatto.
Francesco Provinciali
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