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La crisi europea avanza, e se la soluzione fosse il modello islandese?

Il paese nordico, il primo a subire il crollo dell'economia, si sta lentamente risollevando. Tgcom24 ne ha parlato con gli economisti Mario Seminerio e Loretta Napoleoni

Afp

In Grecia ha giurato il nuovo governo di Samaras pronto a deciderne le sorti. In Spagna è arrivato il prestito dell’Unione Europea per salvare il sistema creditizio ma le condizioni restano ancora critiche. In Italia il timore del contagio è una scure pronta a colpire con il debito che ad aprile ha raggiunto il record di 1.948 miliardi.

La crisi in Europa non sembra arrestarsi, anzi, nel giro di un anno la situazione si è aggravata con i paesi della periferia, i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) che stanno soffrendo una recessione dura ed estenuante sotto il segno dell’austerità richiesta dall’Ue.

Tra i ghiacci, nel nord dell’Europa, c’è un’isola che invece sta viaggiando su un binario opposto: è l’Islanda, la prima nazione a crollare con l’esplosione della bolla speculativa che ha dato inizio alla crisi. Oggi il paese, dopo una serie di politiche e provvedimenti particolari, sta vivendo una ripresa seppur lenta dell’economia con crescita del Pil, aumento delle esportazioni e calo del tasso di disoccupazione.

La storia
Tutto ha inizio nel 2001, il Governo islandese cominciò a privatizzare il sistema bancario. Le tre banche principali, Landbanki, Kapthing e Glitnir, con il programma Icesave, un conto bancario online che offriva altissimi tassi d’interesse attirarono risparmiatori di altre nazioni, soprattutto inglesi e olandesi, e cominciarono ad agire in totale deregulation, indebitandosi fino a raggiungere, nel 2007, il 900% del Pil islandese. L’anno successivo esplose la crisi. Gli istituti di credito fallirono e i risparmiatori, che avevano depositato i loro soldi nell’Icesave, videro i loro conti vaporizzarsi. A fine 2008 anche il Governo si dichiarò insolvente e andò in fallimento.

Cosa fece l’Islanda per risolvere la crisi  
Gli islandesi manifestarono per 14 settimane nelle piazze portando il governo, colpevole della crisi, alle dimissioni e rifiutando, attraverso un referendum, la supertassa che il nuovo esecutivo voleva imporre per pagare i debiti. Il paese mise controlli sui capitali molto forti, limitando l’esportazione da parte dei cittadini dei propri averi fuori dalla nazione e la corona islandese si svalutò quasi del 50%. Proprio la svalutazione del cambio ha favorito la ripresa e la crescita del Pil facendo aumentare l’esportazione dei prodotti di cui l’isola è ricca: il pesce e l’alluminio. Il debito, invece, è stato rinegoziato con inglesi e olandesi trattando un piano di restituzione dei debiti a lungo termine.

Ma il modello islandese   potrebbe essere preso come spunto per trovare soluzioni e risollevare i paesi della periferia europea?

Mario Seminerio , analista macroeconomico e portfolio advisor di una primaria società di gestione del risparmio, sostiene, a Tgcom24, che scelte simili a quelle adottate dall’Islanda siano impraticabili in Italia o negli altri paesi della periferia europea per le differenze sia del tipo di crisi che delle caratteristiche geofisiche delle altre nazioni. Grecia, Italia e Spagna fanno parte dell’Unione Europea e un’eventuale uscita dall’euro di una di queste nazioni “avrebbe conseguenze catastrofiche con un profondo impoverimento della popolazione e una fuga dei depositi. Si dovrebbero mettere controlli dei capitali. Servirebbe che qualcuno li aiuti e invece perderebbero l’assistenza da parte dell’Unione Europea”.

Di parere diverso è Loretta Napoleoni, massima esperta di terrorismo ed economia internazionale. Per la Napoleoni, intervistata da Tgcom24,  tutti i paesi della periferia si sarebbero dovuti mettere d’accordo per rinegoziare il debito attraverso un default pilotato dei PIIGS e l’introduzione di un euro a due velocità. Un euro di tipo A nei paesi con le economie più potenti e un altro di tipo B per i paesi in difficoltà, con un valore più basso, che avrebbe favorito la concorrenzialità. E ora, sul possibile ritorno alla dracma da parte della Grecia, l’economista ha ammesso: “succederebbe il caos perché a quel punto la Banca Centrale Europea (se non venisse ripagata dei fondi concessi) si ritroverebbe con un buco in bilancio. Anche se secondo me è comunque inevitabile che la Grecia esca dall’euro, pur se questo comporterebbe il rischio di un collasso della periferia europea”.

Una soluzione per uscire dalla crisi , tralasciando il caso islandese, sembra comunque esistere: è necessario l'accordo tra i vari paesi.

Seminerio spiega infatti che la crisi è stata principalmente “nell’architettura istituzionale europea”. La violenta austerità della Germania ha aggravato la recessione mentre ora è necessaria un’unione politica e fiscale. ”Occorrerebbe un rallentamento del processo di austerità, per esempio raggiungere il pareggio di bilancio in 3 anni invece che in uno, partire con dei programmi d’investimento da parte della Banca Europea degli investimenti per favorire la crescita e introdurre un Ministero del bilancio europeo che tolga autonomia fiscale ai singoli Stati”.

La scommessa è quindi la creazione di un’unione che non sia solo monetaria tra i 27 paesi.  “C’è bisogno di una volontà delle varie nazioni di lavorare insieme per creare l’Unione Europea che non c’è” afferma Napoleoni. Intanto si attende cosa si deciderà il 28 e il 29 giugno durante il vertice del Consiglio Europeo.

 Stefania Bernardini

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