Gli effetti del Covid sulla scuola: Italia tra i paesi con la chiusura più lunga, ma con le classi tra le meno affollate

Il rapporto “Education at Glance 2020” analizza l’impatto dell’emergenza sanitaria sul sistema scolastico nei paesi OCSE. L’Italia tra i più colpiti. Ma nella ripartenza siamo tra i più virtuosi

Un brusco calo delle competenze che, unito a un'ipotetica frenata degli investimenti nel settore istruzione, potrebbe avere effetti a lungo termine devastanti sull'economia globale (quindi anche italiana). Lo stop alle attività ordinarie di scuole e università potrebbe potrebbe essere la responsabile della contrazione di circa l'1,5% del PIL, da qui almeno fino al 2100. Ma questo è solo il più preoccupante degli allarmi fatti emergere dall'OCSE nel suo recente rapporto “Education at Glance 2020” - analizzato dal portale Skuola.net - che ha dedicato un focus proprio sulle conseguenze che il Covid ha avuto (e avrà) sui sistemi educativi di 46 Paesi. Perché il lockdown della scuola ha mostrato molte altre fragilità: il difficile passaggio dalla didattica frontale a quella 'a distanza', la scarsa abitudine dei docenti a “dialogare” con le nuove tecnologie, il problema del sovraffollamento delle classi, la possibile fuga degli studenti stranieri.

Quanto investono gli Stati nell'istruzione?

Come detto, però, gli investimenti sono il perno di tutto. Prima della pandemia, all'istruzione veniva dedicato in media l'11% della spesa pubblica. Tuttavia, questa quota varia a seconda del Paese: si va dal 7% della Grecia al circa il 17% del Cile. L'Italia? Con una quota che si aggira attorno al 7,5% è al penultimo posto tra le nazioni protagoniste della ricerca. Anche se, va detto, molti Stati - Italia compresa - hanno cercato di tamponare l'emergenza con misure ad hoc. Per debellare il nemico numero uno per il settore: le chiusure.

Scuole chiuse, Italia tra i Paesi con il lockdown più lungo
Ogni settimana di stop equivale a una perdita in termini di competenze. E, soffermandoci sull'analisi dell'OCSE, il nostro Paese parte svantaggiato: se la maggior parte degli Stati ha chiuso le scuola per 14 settimane, da noi lo stop si è prolungato per 18 settimane (solo la Cina, la prima a chiudere tutto il 16 febbraio, ci batte). Inoltre, non tutti i paesi colpiti dalla pandemia hanno chiuso tutte le loro scuole: ad esempio, le scuole primarie in Islanda sono rimaste aperte se le dimensioni delle classi erano inferiori a 20 studenti; in Svezia, invece, la maggior parte delle primarie e secondarie inferiori sono rimaste aperte a prescindere.

La didattica cambia volto

A conti fatti, in 2 Paesi le chiusure si sono limitate a 7 settimane (4% del totale), sono arrivate a 8-12 settimane in altri 6 Stati (13%), la fetta più grossa (24 Paesi, il 52%) ha chiuso le scuole per 12-16 settimane, 13 nazioni (28%) si sono spinte a 16-18 settimane. E la situazione poteva essere assai peggiore se, come avvenuto in parecchi casi, non fossero intervenute nel bel mezzo del lockdown chiusure o vacanze scolastiche già programmate. Ciò, però, non vuol dire che la didattica si è fermata; praticamente ovunque si è spostata online o sui mezzi di comunicazione generalisti: con lezioni svolte dai docenti in diretta, sfruttando le piattaforme web (strada principale quasi dappertutto); con materiali e risorse fornite agli studenti per restare al passo con i programmi in autonomia; con programmi aggiuntivi gestiti dalle Tv e dalle radio pubbliche delle varie nazioni (come l'Italia e la Spagna); con progetti di formazione gestiti da privati ma, vista la situazione, messi a disposizione di tutti (come in Francia); con modelli d'istruzione a domicilio (è il caso del Lussemburgo).

Docenti e tecnologia: un rapporto non sempre idilliaco

Peccato che, questo impegno, non sempre è stato garanzia di qualità. Perché il corpo docente spesso non si è fatto trovare pronto ad affrontare la sfida. Il passaggio da offline a online andava preparato prima. Così non è stato: secondo un precedente sondaggio internazionale sull'insegnamento e l'apprendimento dell'OCSE (TALIS) del 2018, in media solo il 53% degli insegnanti (della scuola secondaria inferiore) lasciava i propri studenti utilizzare frequentemente o sempre le nuove tecnologie per progetti o lavori in classe. Solo in Danimarca, Nuova Zelanda e Australia eravamo tra l'80% e il 90%. Mentre in Finlandia, Israele o Romania questi numeri erano più che raddoppiati nei cinque anni precedenti l'indagine. Con l'Italia che, come spesso accade, si attestava sotto media: da noi meno del 50% del corpo docente apriva le porte alla tecnologia. Non solo: un quarto dei dirigenti scolastici in tutta l'OCSE (il 30% in Italia e Francia) “denunciava” l'inadeguatezza dell'infrastruttura tecnologica della propria scuola.

Da rivedere il modello di formazione degli insegnanti

Ma non è solo questione di accettazione del mezzo tecnologico, alla base ci sono profonde lacune nella formazione degli insegnanti: solo il 60%, in media, dice di aver frequentato corsi professionali o comunque di aver affinato le proprie competenze in materia nell'anno precedente all'indagine; mentre il 18% ha segnalato un elevato fabbisogno di nozioni informatiche di base. Inoltre, sebbene la maggior parte degli insegnanti partecipi allo sviluppo professionale, i programmi a cui si iscrivono non sono sempre i più adatti per questo momento storico. I docenti, infatti, hanno maggiori probabilità di partecipare a corsi o seminari rispetto a forme più collaborative: in media nei paesi OCSE, il 76% degli insegnanti riferisce di frequentare corsi o seminari esclusivamente di persona, mentre solo il 44% ha partecipato a peer-to-peer e coaching (svolti da altri colleghi). Ovviamente ci sono delle eccezioni: in Corea e a Shanghai, ad esempio, oltre il 90% degli insegnanti si affida ai corsi online; in Australia, Regno Unito, Israele, Messico, Federazione Russa e Stati Uniti si va oltre il 50%.

'Classi pollaio': c'è chi sta molto peggio dell'Italia

Ora, però, è il momento di ripartire. Con l'emergenza Covid che continuerà a propagare i suoi effetti anche nel prossimo anno scolastico. Ci sono da rispettare le misure anti-contagio. Il modo migliore per garantire il distanziamento sociale? Se le classi erano troppo affollate, ridurre il numero degli alunni. Una missione che, per alcuni Paesi, è a portata di mano mentre per altri sarà una prova davvero ardua. Ma, per una volta, l'Italia sembra essere tra le più virtuose, visto che rientra nel gruppo di nazioni con una media alunni per classe al di sotto di quella OCSE, sia per la scuola primaria (dove siamo sotto i 19 alunni contro 21) sia per la secondaria inferiore (poco sopra i 20, rispetto ai 23-24 dell'area OCSE). Peggio di noi fanno ad esempio Francia, Spagna, Portogallo, Germania e Stati Uniti. In Cile si va addirittura oltre i 30.

La didattica a distanza non è più un ripiego

La soluzione più adottata, però, non prevede di dividere le classi ma di avviare una turnazione tra alunni, sfruttando la didattica a distanza. Per garantire a tutti gli studenti l'opportunità di trarre vantaggio dall'insegnamento in un contesto di classi di dimensioni ridotte, in circa il 60% dei paesi membri e partner dell'OCSE ci si sta organizzando per alternare gli studenti, nel corso della stessa giornata o in giorni diversi. Conseguentemente, rispetto al passato, si ridurrà l'insegnamento in classe tradizionale. Un altro dei cambiamenti che il Covid ha innescato in pochissimi mesi.

Anche l'università avrà molti problemi da risolvere

Infine un accenno all'università. Perché la pandemia ha avuto un grave impatto anche sull'istruzione superiore: gli atenei hanno chiuso più o meno parallelamente alle scuole, continuando online con lezioni ed esami. E si proseguirà diffusamente così anche nel prossimo anno accademico. Ma è quasi inevitabile che, senza confronto diretto, la qualità della formazione e la ricchezza delle risorse umane da cui potrà pescare il mondo del lavoro tenderanno a calare. Nel caso delle università, inoltre, si aprirà anche un tema di sostenibilità economica. La mobilità studentesca era una voce di bilancio importante per gli atenei. Basti pensare che, nell'era pre-Covid, il 6% degli iscritti nelle università dell'area OCSE erano stranieri (l'Italia è in linea con la media) e, nel caso dei dottorati e dei programmi post-laurea si saliva al 22%. In alcuni contesti, tra l'altro, agli studenti esteri venivano fatte pagare tasse più alte rispetto ai residenti. Ora, le difficoltà negli spostamenti scoraggeranno in tanti. Visto che lo stimolo principale per lasciare il proprio Paese, per la maggior parte degli studenti stranieri, è la prospettiva di entrare a contatto con una comunità accademica di prestigio. Cosa che il virus ha momentaneamente messo in stand-by.