L'Opera dello Chef Stefano Sforza

Passione e dedizione per una cucina creativa tesa a valorizzare gli ingredienti del territorio in un ambiente raffinato e accogliente

Un'Opera d'arte culinaria

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Chef Stefano Sforza
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Torello

Opera è una parola che rimanda al lavoro manuale, al “fare” tipicamente artigiano e allo stesso tempo all’idea di arte, sia essa un dipinto o una scultura. Opera, come inno all’operatività, è anche il nome scelto per il nuovo ristorante torinese aperto a due passi dalla Stazione di Porta Susa - insignito di 1 Cappello dalla famosa Guida L’Espresso 2020 a soli 5 mesi dall’apertura – diventato il palcoscenico su cui lo chef Stefano Sforza, classe 1986 e torinese doc, si “esibisce”.

Dove si esprime attraverso una cucina precisa nei sapori e ben delineata nei gusti, senza troppi orpelli, schietta e pulita come insegnava il maestro Gualtiero Marchesi. Ricette fatte di territorialità, di innovazione, di concretezza e naturalmente di stagionalità. Opera è la somma perfetta di ingegno e creatività, racchiuse in un ambiente raffinato ma caldo e accogliente, sui toni del miele, del verde oliva e del cacao, con mattoni a vista, volte a botte, e una cucina visibile già dalla strada, che prepara l’ospite ancor prima di sedersi al tavolo. 


Il giovane chef torinese arriva a Opera come Executive Chef, sposando il progetto della famiglia Cometto, dopo più di quindici anni di esperienze: dopo il Bellevue di Cogne, il Del Cambio di Torino, il Trussardi alla Scala di Milano, e dopo i tre anni trascorsi al Turin Palace.
Conosciamolo meglio in questa intervista.


Stefano, qual è il piatto nazionalpopolare che più le piace?
È un piatto semplice, ricco, profumato, equilibrato. È una ricetta perfetta, quella dello Spaghetto alle vongole e limone, forse anche perché mi riporta alla mente i tanti momenti di festa trascorsi in famiglia. Lo associo alla spensieratezza, alla positività.

Il piatto della nostalgia?
Il piatto della nostalgia è legato a mia nonna e a quei profumi che fin da piccolo impari a riconoscere e che magari inizi ad apprezzare con gli anni, quando cresci. Se penso a un piatto che mi riporti indietro con la memoria, mi viene in mente la zuppa di trippa e fagioli, una ricetta fortemente legata alla tradizione. Ancora oggi quando mia nonna la prepara, ne fa una porzione in più per quando vado a trovarla.

La cucina è memoria o divertimento?
La cucina deve essere memoria e al contempo divertimento. L’effetto della memoria è fondamentale per portare il cliente in una dimensione a lui familiare, mentre la componente del divertimento può essere legata all’aspetto estetico del piatto o anche al modo stesso di consumarlo. Anche assaggiare una ricetta della tradizione, ma impiattata in maniera disorientante, oppure accostare due ingredienti che mai avresti immaginato potessero convivere nella stessa ricetta, è fonte di divertimento. Per sorridere mangiando bisogna far convivere queste due componenti fondamentali, memoria e divertimento. Solo così si otterrà quell’effetto “wow” che noi cuochi ricerchiamo continuamente.

Il ristorante che deve assolutamente provare almeno una volta nella vita?
L’Alinea di Chicago è il ristorante che ho messo in cima alla mia personalissima classifica. Per le tre Stelle Michelin ricevute nell’arco di 5 anni, per il posizionamento tra i migliori ristoranti al mondo secondo tutte le classifiche internazionali e per quell’approccio moderno e spiccatamente estetico. Una tappa obbligata per tutti gli addetti ai lavori e gli appassionati di cibo.

Quali sono le sue fonti d’ispirazione per creare un piatto?
Nel corso degli anni il mio approccio e, di conseguenza, le fonti di ispirazione, sono cambiate radicalmente. Prima ero molto più istintivo, commettevo più errori e i miei spunti non erano frutto di uno studio attento. Ora invece è tutto pensato, ogni ingrediente e ogni preparazione vengono soppesate nella logica dell’equilibrio del piatto. Non saprei identificare un metodo con cui ricerco l’ispirazione, è un processo naturale che si innesca nei momenti di relax, quando passeggio, quando leggo o quando la mattina mi ritrovo davanti al frigorifero ad ispezionare le materie prime a disposizione. Un processo creativo, d’altro canto, non può avere troppi ragionamenti alla base, altrimenti perde quella dose di spontaneità che rende un piatto unico.
Può un piatto identitario di una nazione essere proposto con successo, rispettando la tradizione, in un altro paese?
Assolutamente sì. Una ricetta però va rispettata, e l’importante è non contaminarla con ingredienti che non c’entrano con l’originale. Mi vengono in mente la pizza e la pasta al pomodoro, due capisaldi della nostra cucina, e allo stesso tempo mi vengono in mente infiniti modi di rovinarle, che mi è capitato di vedere in giro per il mondo. Per un italiano vedere storpiare le ricette con cui siamo cresciuti è come bruciare il nostro tricolore.

Come trascorre i momenti in cui non è in cucina?
Nel nostro lavoro non ci sono molti momenti liberi, quindi devi scegliere accuratamente come spendere quelle poche ore di svago. A me piace fare attività semplici, lunghe passeggiate con il cane, fare visita ai miei genitori e naturalmente trascorrere quante più ore possibili con la mia compagna, che da dieci anni sopporta i miei ritmi e mi supporta in ogni scelta. So benissimo che non è facile stare accanto a una persona che ha scelto questo percorso di vita, perciò ogni volta che posso cerco di dedicarmi alle persone che amo e che mi amano in maniera incondizionata.

Quanto è disposto a sacrificare per ottenere il successo?
Non identifico il lavoro con il sacrificio. È la mia vita e la mia passione, e ciò che mi appassiona non può essere sinonimo di sacrificio. Non penso riuscirei a fare a meno della mia cucina, e non riesco a immaginare il mio futuro senza. Il successo poi non lo vedo come qualcosa di lontano, non è necessariamente e solo un riconoscimento o un premio o una menzione particolare. Il successo vero è quello che viene direttamente dai miei clienti ogni sera, quando ti chiamano al tavolo per complimentarsi e stringerti la mano. Non c’è gratificazione più grande per uno chef.

La ricetta che avrebbe voluto proprio creare e invece…
Ci sono molte ricette che nel corso dell’anno prendono forma ma non vedono mai la luce. L’ingrediente con cui mi sono scontrato più duramente è sicuramente l’abalone, un mollusco di mare davvero prelibato e altrettanto impegnativo da pescare. Ho tentato di cuocerlo in dieci modi diversi, sempre senza però riuscire a raggiungere la giusta consistenza. Alla fine ho dovuto gettare la spugna e tornare allo studio di nuovi ingredienti. Ad oggi quella è la ricetta che avrei voluto portare a termine.

Il piatto che meglio la rappresenta?
Trippa, merluzzo, melone: entrato da poco in carta. È una ricetta che non ti aspetti e che genera curiosità. La trippa è lavorata come fosse un’aspic, dalla consistenza gelatinosa e con un sapore piuttosto neutro, mentre il merluzzo, preparato sotto sale, spicca per sapidità. C’è poi il melone, tagliato a brunoise molto piccola e condito con peperoncino, lime e dragoncello, che dà al piatto una nota dolce acida di completamento.

La cucina del futuro è innovativa o recupererà la tradizione?
La tendenza al momento è quella del recupero della tradizione. D’altro canto siamo italiani ed è impossibile nascondere il nostro DNA. Qualunque piatto, dal mio punto di vista, nasce dalla tradizione e si sviluppa magari seguendo strade alternative, con cotture e tecniche diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati da generazioni. Anche l’innovazione più spinta ha spesso solide basi e punta quasi sempre a far rivivere un ricordo o una ricetta tipica che conosciamo da sempre.

Quanto osa in cucina?
Abbastanza, quella di Opera è una cucina che “spinge”, per usare un termine da brigata, gergale ma diretto. Ci piace sorprendere con i sapori, perché amiamo creare delle vibrazioni nelle papille gustative. I piatti devono lasciare un segno in chi li assaggia, anche se è sempre bene non sconfinare nella sperimentazione troppo esasperata, perché il rischio è di non venire capiti o di essere apprezzati da pochissime persone. Voglio che la “firma” nei miei piatti sia sempre riconoscibile, ma allo stesso tempo non mi allontano mai troppo da quella fascia rassicurante che ti rende comprensibile anche dai non addetti ai lavori. Il cliente che varca la soglia del nostro ristorante non deve mai essere stravolto, ma piuttosto accompagnato verso nuovi sapori, verso una nuova esperienza culinaria.

Di Indira Fassioni